
Carissime colleghe e colleghi,
Nel mezzo del cammin del mio mandato,
mi ritrovai per una selva oscura…
Con enorme rispetto per Dante Alighieri abuso dell’incipit della sua Divina Commedia, perché mi pare si presti bene a descrivere la situazione in cui ci troviamo.
Ho fortemente voluto questa nostra Assemblea privata in presenza e senza collegamenti digitali, perché essa coincide con l’esatta metà del mio mandato, ed è dunque l’occasione per capire meglio che cosa abbiamo dovuto affrontare negli ultimi due anni, come lo abbiamo fatto, e come indirizzare il nostro operato nel biennio a venire.
Sono stati due anni tremendi: non potevamo immaginarlo quando mi avete affidato il mandato. Ma così è stato. E in questo 2022 in cui la speranza era di continuare con forza il rimbalzo realizzato dalla nostra industria e manifattura nel 2021, ci troviamo invece al terzo mese di invasione russa dell’Ucraina, che ha aggiunto nuovi enormi impatti asimmetrici sull’economia nostra, europea e mondiale.
Trovate per questo in cartella una sintesi analitica dei molti progetti sui quali gli organi e la struttura di Confindustria hanno lavorato, e se sono molti anche solo sotto forma di schede di sintesi si deve alla natura peculiare di quel che abbiamo dovuto affrontare, e al fatto che non abbiamo mai diminuito la nostra costante e appassionata ricerca di incalzare istituzioni e partiti nella scelta delle misure e delle riforme più adeguate non solo per dare immediata risposta alle emergenze, ma per sbloccare dalle fondamenta i troppi colli di bottiglia che da decenni hanno inchiodato l’Italia a bassa crescita, produttività stagnante, e allarmante estensione della povertà.
In questo mio rendiconto, desidero solo richiamare per sommi capi le quattro sfide a cui abbiamo dovuto rispondere.
La prima è stata quella del COVID.
In quei durissimi primi mesi la nostra azione e le nostre proposte hanno dovuto confrontarsi con un atteggiamento di forte incomprensione, e spesso di vera e propria chiusura, da parte del governo precedente.
Questo non ci ha impedito di fare fino in fondo il nostro dovere, confermando ancora una volta quanto siano infondate e pretestuose tutte le ricorrenti polemiche sulle presunte carenze dello spirito di responsabilità sociale dell’industria italiana.
L’industria farmaceutica, dei dispositivi sanitari, alimentare, e le filiere tessili e della logistica, con le loro produzioni spesso riorientate per ragioni di emergenza e capacità distributive capillari di beni e servizi, hanno consentito al Paese di reggere anche nelle fasi più dure del lockdown generale.
Abbiamo subito proposto e adottato insieme ai sindacati protocolli ad hoc per lavorare in sicurezza nelle nostre fabbriche. Senza una sola sbavatura polemica ma in un grande spirito condiviso di responsabilità nazionale.
L’industria italiana ha dato così una enorme prova della sua responsabilità sociale, ed è stata cemento di coesione nazionale. Non dimentichiamolo mai e continuiamo a ripeterlo, perché molti nel dibattito pubblico italiano l’hanno dimenticato subito. La parte più efficace del sostegno all’emergenza economica e alla caduta delle attività e del PIL sotto il governo Conte è stata dovuta allora alla efficace collaborazione tra MEF e Banca d’Italia: ne sono derivate misure che hanno consentito garanzia pubblica, in percentuale diversa, per oltre 280 miliardi di euro di sostegni di liquidità diversamente gestiti dal Fondo di Garanzia PMI e SACE. Prestiti agevolati di cui già nel 2021 si è avviato il rientro, che difficilmente però può proseguire agli stessi ritmi in questo terribile 2022. Ma sul complesso delle misure sanitarie ed economiche adottate dal governo precedente, invece, le nostre proposte per lo più non hanno trovato accoglienza.
Il Governo, allora, ha preferito a interventi organici una panoplia di ben 110 miliardi di bonus a tempo, mirati discrezionalmente a una vastissima serie di constituencies economiche e sociali.
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha documentato che oltre il 50% di quei 110 miliardi sono stati attributi senza tener conto né dei redditi individuali e familiari né di quelli d’impresa, di chi ne aveva davvero più bisogno.
Per la sanità, tentammo subito di richiamare la responsabilità del Governo sulla necessità di reindirizzare il sistema verso la raccolta di dati granulari, microterritoriali e interoperabili tra diverse banche dati centrali e periferiche. In modo da dotarsi di efficaci indicatori per chiusure mirate solo ai ristretti nuclei territoriali di maggior contagio, e di disegnare su questa base un sistema di tracciamento digitale che assicurasse certo la privacy, ma producesse un’immediata rete di allarme preventivo per coloro che erano entrati in contatto con contagiati. Purtroppo, non è avvenuto nulla di tutto ciò. Si è preferita la via di un barocco sistema centrale e regionale insieme, che spesso ha prodotto dati regionali ritoccati per evitare chiusure, e l’app tecnologica di tracciamento è stata un fallimento perché non è mai stata considerata una priorità.
E a questo si è dovuto il ritardo con cui il governo Conte imboccò la via dei vaccini, resisi disponibili grazie all’industria in pochi mesi. Ve le ricordate, le “primule” di Invitalia?
E gli acquisti straordinari per le scuole fatti da Arcuri, con centinaia di milioni buttati dalla finestra?
A fine luglio 2020 venne la grande scelta Ue di un primo debito comune europeo a fini cooperativi per sostenere di più i paesi che con il COVID perdevano più PIL come l’Italia, e ci concentrammo subito con proposte di riforme da sottoporre al Governo in vista della redazione del PNRR.
Risale infatti a luglio 2020, per esempio, la nostra proposta organica di riforma collegata degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive del lavoro, per superare la vecchia CIG il cui finanziamento grava per ragioni inspiegabili in maniera rilevante solo sull’industria mentre la si estendeva a sempre nuovi soggetti, e che non è finalizzata alla formazione permanente offerta da politiche attive gestite con efficienza da un ruolo maggiore delle APL private.
Purtroppo, quella nostra proposta non venne esaminata dal governo. E ora ci troviamo con una CIG sempre più estesa, sempre più sbilanciata solo a nostro carico per il suo finanziamento, e con politiche del lavoro sempre e solo incentrate prioritariamente sugli inefficienti Centri Pubblici per l’Impiego.
Il Governo arrivò a febbraio 2021 senza aver completato la redazione del PNRR e senza che ci fosse mai possibile confrontarsi sui suoi contenuti. Ma, per fortuna, maturarono a quel punto rapidamente le condizioni per l’avvento di Mario Draghi.
È stata una scelta di cui dobbiamo enorme gratitudine al Presidente della Repubblica Mattarella, che si è confermato un pilastro di credibilità e autorevolezza internazionale, anche per le parole chiarissime che ha sempre pronunciato contro l’invasione russa dell’Ucraina.
Con il Presidente Draghi, il rapporto tra Confindustria e Palazzo Chigi è mutato in maniera sostanziale.
Mi sono dato una regola. Non richiedere ritualmente incontri pubblici a Palazzo Chigi da “vendere” identitariamente sui media, come fanno partiti e sindacati.
Invece: un rapporto costante, diretto e personale. Basato sulla reciproca fiducia, oltre che sulla necessaria riservatezza.
Con i nostri interventi e proposte, nelle ormai pochissime settimane che separavano il giuramento del governo Draghi dall’inoltro a Bruxelles del PNRR italiano, abbiamo cooperato in modo essenziale perché si diffondesse nei media e nella consapevolezza pubblica la necessità di riorientare in modo strutturale le misure sanitarie e la bozza di PNRR.
Sul primo fronte, in pochi mesi la scelta di stoppare Invitalia e sostituirvi un grande servitore dello Stato come il Generale Figliuolo ha generato rapidamente efficienza e crescenti tassi di immunizzati. Sono state finalmente accolte le nostre proposte di estendere i punti di vaccinazione alle nostre fabbriche. E senza batter ciglio abbiamo anche accettato il gravoso compito chiesto alle imprese di essere loro i verificatori di controllo, una volta che il green pass e poi il green pass rafforzato sono diventati sempre più obbligatori in tutti i settori del lavoro.
Non è accaduto in nessun altro Paese avanzato: noi non ci siamo tirati indietro e abbiamo fatto fino in fondo e con orgoglio il nostro dovere di servire il Paese. Quanto al PNRR, poiché il Parlamento aveva già cominciato a esaminare la bozza di Conte, il Presidente Draghi non poté che modificare le prime 80 pagine in premessa al documento, lasciando pressoché inalterate struttura e dotazione delle 6 missioni in cui il PNRR si articola.
In effetti, nelle prime 80 pagine riscritte del PNRR si trovano molte delle nostre proposte e, soprattutto, quella visione generale per la crescita del Paese di cui avevamo sempre lamentato l’assenza.
Le priorità prima ignorate rappresentate da produttività e concorrenza, la necessità di una riforma fiscale organica, una indicazione chiara dei milestones cioè delle tappe intermedie che l’Italia è tenuta ogni semestre a realizzare se non vogliamo perdere le tranche di risorse impegnate, un meccanismo stringente di controllo centrale sull’azione esecutiva delle Autonomie con interventi di sussidiarietà e fino al commissariamento in caso di ritardi e inadempienza.
Considero uno dei nostri successi più rilevanti, quella riscrittura iniziale del PNRR.
Ma purtroppo le 6 missioni restarono pressoché uguali.
E questa scelta obbligata, non dovuta al Presidente Draghi ma ai tempi ristretti a sua disposizione, ha posto le basi del successivo fenomeno che dall’autunno 2021 ha iniziato a diventare via via più patologico. Intanto però, anche in questa seconda grande sfida rappresentata dall’avvento del Presidente Draghi, la nostra industria ha messo a segno un successo esaltante. Come nel 2020 abbiamo assicurato in maniera decisiva la coesione sociale, nel 2021 siamo stati i protagonisti assoluti del rimbalzo italiano.
L’aumento di oltre il 17% di investimenti fissi lordi è stato sostenuto dal forte rimbalzo nell’industria, solo in modestissima misura dallo Stato mentre i servizi erano alle prese con una sola modesta ripresa dei consumi.
Così l’aumento di oltre il 13% dell’export si deve a noi.
Questi successi dell’industria che esporta e che riprende il suo posto con forza nelle catene del valore e della fornitura sono stati il traino degli oltre 6 punti di PIL ripresi nel 2021, dopo i 9 persi nel 2020.
Ma, ancora una volta tale dato incontrovertibile non è entrato nel dibattito pubblico italiano, non ha aperto gli occhi dei partiti rispetto alla strategicità da difendere rappresentata dall’industria italiana.
E qui veniamo al terzo fenomeno che abbiamo dovuto affrontare.
I partiti dell’eterogenea coalizione dell’attuale Governo non hanno mai davvero condiviso uno spirito di concordia e cooperazione nazionale. Man mano che hanno preso ad avvicinarsi turni elettorali amministrativi e poi le elezioni per il Quirinale, ciascuno di essi ha iniziato ad anteporre bandierine identitarie.
Il fenomeno è stato crescente, e via via sempre più difficilmente contenibile per la necessità di evitare folli crisi di governo, che avrebbero minato quella nuova e straordinaria autorevolezza europea e mondiale che la premiership di Mario Draghi assicura all’Italia.
Una prima nitida fotografa di questo andazzo è stata scattata con la legge di bilancio per il 2022.
I partiti si sono visti delegare il mix di interventi fiscali, e hanno scelto misure a margine sui bonus IRPEF dimenticando completamente sia l’industria, sia la priorità di concentrarli su incapienti, giovani, donne e titolari di contratti a tempo.
Come sul lavoro, anche la nostra organica proposta di taglio del cuneo contributivo concentrato a maggior vantaggio dei lavoratori sotto i 35mila euro è rimasta inascoltata.
La stessa cosa è avvenuta per la nostra proposta di riforma IRES con un’aliquota differenziata che premi con tassazione al solo 15% le imprese che reinvestono tutti gli utili per patrimonializzarsi meglio e investire sul proprio capitale materiale, immateriale e umano, per poi salire fino all’aliquota attuale se gli utili invece che al reinvestimento vengono destinate alle cedole.
E l’IRAP si abbatterà solo per professionisti e imprese individuali. Al contrario, in legge finanziaria ci siamo trovati a sorpresa con l’azzeramento del Patent Box, forti tagli pluriennali a Industria 4.0, aggravi d’imposta dovuti a una troppo radicale revisione del riallineamento degli asset d’impresa.
Tutte misure figlie della necessità di copertura della nuova ondata di conferme di bonus avanzate dai partiti: dal Reddito di Cittadinanza rifinanziato senza cambiarlo, a Quota100 non eliminata ma solo gradualmente assorbita, alla facoltà per gli autonomi di avere ancora anni prima di rientrare in tassazione IRPEF sopra i 65mila euro di fatturato.
Queste tre misure da sole pesano in maniera pluriennale sul bilancio pubblico – tra maggior spese e minori entrate – per circa 70 miliardi dal 2020 al 2026. Tranne la quota del Reddito di Cittadinanza riservata esclusivamente alla lotta alla povertà, nessuna di tutte le altre finalità concorre all’obiettivo del sostegno a chi ha meno, né a un lavoro stabile per chi ne resta escluso né alla crescita delle imprese e del Paese.
E mentre questo accadeva in finanziaria, si inabissava anche la prospettiva su cui avevamo insistito tanto, fin dalla mia nomina: cioè la necessità di affrontare la ripresa italiana attraverso un grande patto per l’Italia, pubblico e privato, imprese e sindacati, tutti insieme.
Poco prima della legge di bilancio, alla nostra Assemblea pubblica annuale, il Presidente Draghi appoggiò e fece propria con grande energia la nostra proposta.
Ma rapidamente si comprese che non sarebbe stata accolta.
I partiti preferiscono rapporti bilaterali con il Presidente del Consiglio. Non hanno mai firmato impegni comuni.
Allo stesso modo, una parte del sindacato ha sempre risposto che avrebbe solo parlato con il Governo, e non certo con noi: disconoscendo ogni possibilità di uno scambio di comune convergenza tra produttività e salari, nuove politiche attive del lavoro e nuovi ammortizzatori volti alla formazione e non più meri sussidi.
Atteggiamento che il Ministro Orlando ha del resto sempre incoraggiato, avendo a propria volta la stessa visione per cui il lavoro non va delegato alle parti sociali ma è la politica che lo decide, spesso ideologica.
A questo effetto della lotta tra partiti e tra identità diverse del sindacato si è aggiunto il crescente ritardo e l’annacquamento progressivo delle riforme strutturali: dalla delega di riforma fiscale al ddl concorrenza, alle misure per la produttività.
La scorsa settimana il Presidente Draghi ha dovuto lanciare un monito drastico ai partiti: metto la fiducia, se continuate a bloccare il ddl concorrenza. Ma dobbiamo essere realisti: quel ddl è stato già molto indebolito rispetto alla sua versione originale, che era prevista per luglio 2021 e oggi sono passati 10 mesi.
Come ha precisamente documentato Open Polis, delle 58 scadenze del PNRR previste per fine giugno, 9 sono state completate, 17 appaiono a buon punto, e ben 32 sono ancora “in corso”. E tra queste la riforma del codice degli appalti, il programma nazionale di gestione dei rifiuti, la strategia per l’economia circolare, le misure per la nuova assistenza sanitaria territoriale e decentrata.
Confidiamo ovviamente che il Presidente Draghi serri i tempi e ce la faccia, nonostante il vento dei partiti sia ormai fuoriuscito dal sacco di Eolo e sembri praticamente impossibile farlo rientrare: visto il nuovo turno di amministrative, poi regionali siciliane e infine elezioni politiche generali.
Queste sono tutte le premesse per cui eravamo in rallentamento del ritmo di crescita della produzione industriale già dall’autunno scorso. Che poi è diventata caduta dal mese di dicembre.
Questa è la ragione per cui non siamo stati ascoltati quando nel 2021 abbiamo cominciato a lanciare allarmi sul costo dell’energia e delle commodities alimentari e minerarie, e sui colli di bottiglia irrisolti del commercio mondiale che generano scarsità di semiconduttori, semilavorati metallurgici e materie prime necessarie alla produzione.
Mi ha sempre convinto ciò che la moglie di Max Weber, il grande storico e sociologo dell’industria, scrisse intorno al vero motivo del suo grande impegno di studioso. Scrisse la signora Marianne: “La verità è che gli fece molto bene nell’estate del 1908 lavorare nella fabbrica tessile alla quale Max e suo fratello Alfred erano legati da una vicenda ereditaria. Max si immerse per mesi nell’esame analitico dei libri paga di dipendenti e fornitori, e nei registri orari del telaio, imparando così a calcolare le curve e le condizioni delle prestazioni orarie, giornaliere e settimanali dei tessitori, allo scopo di sondare le cause psicofisiche e motivazionali delle variazioni di produttività”.
Ecco, in questa frase c’è tutto.
La verità è che il numero dei nostri politici che non hanno la minima idea di cosa e di come viene prodotto è incredibilmente grande. Di come articolate e diverse siano le nostre filiere di produzione e di come funzioni oggi nel mondo l’attrattività degli investimenti.
Purtroppo si vede che non ne hanno la minima idea.
Si vede, nei loro provvedimenti.
Ed eccoci alla quarta terribile sfida di fronte a noi oggi legata ai fenomeni che sono stati drasticamente e strutturalmente aggravati dall’invasione russa dell’Ucraina.
Che ha fatto esplodere la bolletta energetica per famiglie e imprese, che ha accresciuto in maniera strutturale i costi già proibitivi e sottostimati dell’accelerazione della transizione energetica, che ha interrotto catene cerealicole che oggi rischiano di consegnare a fame e proteste di massa molti Paesi africani che si affacciano nel Mediterraneo, e che infine rimbalza e potenzia gli effetti sul commercio via mare degli enormi lockdown adottati dalla Cina in megalopoli i cui porti da soli totalizzano oltre il 30% dei flussi via mare da e per la Cina.
Un primo contributo lo abbiamo dato poche settimane dopo che l’invasione era cominciata, con il nostro Centro Studi.
Molti rimasero scettici per previsioni di crescita che si fermavano per il 2022 di pochissimo vicino al 2%, invece di oltre il 4% atteso, e sempre che non vi fosse poi un embargo improvviso sul gas russo che avrebbe ulteriormente abbattuto il PIL. Ma, di fatto, nelle settimane successive prima il FMI e la scorsa settimana anche la Ue hanno confermato le nostre previsioni.
Se guardate con attenzione le stime Ue, avrete una buona conferma che la crisi attuale colpisce la Ue molto più degli USA, e nella Ue Germania e Italia molto più degli altri membri. Esattamente come dicevamo due mesi fa. Esattamente perché i più colpiti sono quelli che più hanno sbagliato le proprie politiche energetiche negli anni: sia per la dipendenza dalla Russia, sia, nel nostro caso, perché pur importando meno gas russo della Germania, noi ne usiamo una quota molto più elevata per la generazione elettrica.
Per questo abbiamo immediatamente avanzato una serie di misure: tanto per cambiare, ancora una volta strutturali.
Un tetto al prezzo del gas, deciso sulla base dei prezzi vigenti nei contratti in corso degli importatori, contratti che sono incredibilmente secretati. Invece di bonus a tempo, ancora una volta la nostra proposta di taglio strutturale al cuneo fiscale, che lascia nelle tasche dei lavoratori fino a 35mila euro di reddito l’equivalente di oltre mezza mensilità netta in più. Infine, l’immediata decisione Ue di un nuovo fondo per sostenere i sovraccosti energetici e i costi di transizione dei Paesi membri in vista della sostituzione del gas russo, investimenti non coperti nei PNRR nazionali.
Purtroppo, è risultato evidente che ci sono state forti pressioni prevalenti ostili: sia all’intervento sul prezzo del gas, che invece poi Spagna e Portogallo hanno realizzato, sia a interventi diversi dal bonus immediato alle famiglie.
Di qui è nata la tassa sui cosiddetti extraprofitti energetici, come strumento di copertura del bonus 200 euro a 31,5 milioni di lavoratori dipendenti, pensionati e titolari di reddito
di cittadinanza, mentre per gli autonomi si interviene con un fondo ad hoc di 500 milioni tutto ancora da chiarire.
I partiti hanno così preferito interventi che:
– non liberano le imprese dai sovrapprezzi energetici, visto che tutto quanto è stato per loro disposto è la rateizzazione di due mesi di bollette e non il loro sgravio, e in un secondo intervento si è alzato il credito d’imposta per gli energivori.
– lasciano le imprese schiacciate dalla compressione dei margini, che ne fa diminuire gli investimenti proprio quando più servono.
– riservano agli italiani un sostegno solo a tempo e larghissimamente inadeguato ai rincari di prezzo.
Sono tutte misure inadeguate.
In Europa invece, è stato opportunamente annunciato la settimana scorsa il REPowerEU, proprio per le finalità che avevamo richiesto e che il Presidente Draghi ha rilanciato in sede europea.
Dei 300 miliardi annunciati, 225 derivano dalla riapertura di allocazione di prestiti del Next Generation EU non richiesti dai Paesi membri: e in questo caso il meccanismo è sufficientemente rapido, perché dopo 30 giorni dal bando l’Italia potrà attingere da risorse aggiuntive, visto che eravamo l’unico grande Paese Ue ad aver impegnato tutta la quota di prestiti riservataci. Mentre il resto delle risorse proviene per lo più da una riallocazione dovuta a modifiche delle aste ETS e da risorse dei fondi strutturali.
Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Abbiamo sempre sottolineato che per la transizione energetica italiana, e gli enormi investimenti privati che in molte filiere essenziali essa richiede al di là delle risorse del PNRR, l’accelerazione degli obiettivi fissata dal Fit-for-55 era assolutamente eccessiva e da rivedere al ribasso.
La sorpresa negativa è che nel REPowerEU – uno strumento cooperativo positivo – ora ci troviamo con un’ulteriore accelerazione di quegli obiettivi.
Solo per fare un esempio: negli obiettivi Ue precedenti al Fit-for-55 la quota minima di fonti energetiche rinnovabili nel mix energetico complessivo da raggiungere al 2030 era del 32%, il Fit-for-55 l’ha alzata al 40%, e ora il REPowerEU la innalza ulteriormente al 45%.
Analogamente sale l’obiettivo di risparmio energetico di sistema. Come quello di efficienza energetica sul consumo di energia primaria.
Oggi ci troviamo di fronte alla sostituzione del gas russo entro 12-18 mesi diversificando gli approvvigionamenti e con rigassificazione su piattaforme navali: ma se continuiamo ad alzare insieme gli obiettivi da raggiungere, ancora una volta le risorse non potranno assolutamente bastare.
Il REPowerEU allenta le limitazioni a carbone e nucleare: ma noi non abbiamo né l’uno né l’altro.
Da una parte, è vero che la Germania crescerà ancora meno di noi, perché alla dipendenza dal gas russo si aggiunge il fatto che le attuali rotture nella globalizzazione colpiscono in primis il suo modello di manifattura, basato sulla brandizzazione di prodotti che in realtà sono colmi di componenti che provengono dall’Asia come dall’Italia e dal resto d’Europa. Ma, dall’altra, i francesi insieme a tutti i Paesi Ue che hanno centrali nucleari si avvantaggeranno in maniera enorme sulla nostra industria in questo 2022.
Ecco perché tutte le previsioni che oggi si sono allineate alle nostre stimano un 2022 in cui le crescite record di investimenti lordi ed export italiano conseguiti nel 2021, in questo 2022 si riducano a un terzo dell’anno precedente.
Ho spiegato pubblicamente più volte che, come Confindustria, siamo fieri di esserci alleati alle decisioni assunte dal Presidente Draghi sulle sanzioni e sulle misure di sostegno all’Ucraina in sede Ue e NATO, senza minimamente porre veti.
A differenza di quanto abbiano fatto invece i nostri colleghi tedeschi insieme ai sindacati. Ma questo spirito di enorme responsabilità non può e non deve essere confuso per passività remissiva.
Confidiamo nel ruolo di persone come il Presidente Draghi al tavolo delle trattative che si aprirà – speriamo presto – in Ucraina. È un ruolo che gli deriva dalla sua credibilità e autorevolezza personale.
Gli abbiamo illustrato di essere perfettamente d’accordo che la base della trattativa è l’abbandono russo di nuovi territori occupati, l’apertura di un confronto internazionale con la Russia sullo status di Crimea e Donbass, garanzie necessarie all’indipendenza dell’Ucraina e alla sua difesa.
Ma abbiamo anche sottolineato che a quel tavolo di trattativa va portata anche una grande misura Ue per il rilancio economico e la ricostruzione infrastrutturale dell’Ucraina: ad esempio un’emissione obbligazionaria speciale garantita dalla BCE che raccoglierebbe enormi capitali di mercato oggi nei Paesi avanzati, e che costituirebbe un nuovo debito comune europeo assunto per la buona causa della difesa della libertà e della stabilità dell’intero continente e del mondo.
E che, inoltre, servirebbe un approccio complessivo che investa oltre alla Russia anche la Cina. E che nasca dal fatto di considerare la nostra manifattura strategica. Il rischio di avere un mondo spezzato in due – da una parte Usa e Ue e dall’altra Russia e Cina e numerosissimi Paesi africani e asiatici – sarebbe un incubo per il nostro export e per le necessarie importazioni di cui abbiamo bisogno, come Paese povero di fonti energetiche e commodities. Per gli Stati Uniti la globalizzazione è il dollaro: ma per noi è il più libero accesso possibile a energia e commodities, e a mercati finali per i nostri prodotti. Ogni prospettiva di autarchia e sovranismo è suicidaria, per un Paese trasformatore come l’Italia, in un mondo in cui le grandi potenze si rinchiudessero su se stesse.
E penso altresì che serva un’iniziativa straordinaria europea per assicurare cereali necessari ai Paesi nordafricani che si affacciano sul Mediterraneo, come prova tangibile che consideriamo la loro sostenibilità una chiave di volta della sicurezza comune, non solo per i nostri approvvigionamenti di gas.
Come vedete, sono sfide ancor più impegnative.
Sono sfide su cui si riscrivono oggi i nostri anni di storia futura. A cominciare dalla nostra industria.
Per questo, però, voglio toccare un ultimo punto. Che riguarda la Confindustria che vogliamo. A partire dai prossimi due anni.
Voglio essere estremamente sincero.
In questi anni così difficili, spesso mi sono ritrovato a interrogarmi sullo spirito vitale della nostra associazione.
Ovviamente, molti degli eventi traumatici avvenuti in questi due ultimi anni hanno messo a dura prova le diverse sensibilità che sussistono all’interno di una confederazione così vasta. È ovvio che di fronte ai sostegni anti-Covid la sensibilità non fosse la stessa per gli associati nei settori che nel 2020 avevano ottenuto risultati straordinari perché non si erano mai fermati nell’emergenza, rispetto alla vastissima maggioranza che invece aveva incassato un duro colpo.
Ovvio che, sull’energia, importatori e distributori abbiano interessi divergenti rispetto agli energivori, e alla stragrande maggioranza dei piccoli che sono alle prese solo con la bolletta. Ancor più ovvio, che le grandi imprese abbiano margini tali da potersi permettere contratti e welfare integrativo e bonus straordinari aziendali che al 99% dei nostri associati risultano semplicemente impossibili.
La forza di Confindustria è però quella di realizzare una sintesi che parli a nome degli interessi di tutti.
Perché la forza e il successo dell’industria italiana si sono costruiti, anche nel post 2011, proprio grazie al fatto che un numero crescente di migliaia di piccole e medie imprese hanno migliorato costantemente le loro posizioni nelle catene globali di fornitura e valore.
Continuo a non aver dubbi su questo.
Al contempo, però, devo dirvi una cosa.
La nostra forza di sintesi, la nostra responsabilità comune verso ogni singolo associato, vive e viene percepita come vitale se nei momenti difficili sa esprimerla con forza, la sua unità e coesione.
È capitato, talvolta, che io non la avvertissi intorno a me, questa determinazione a battersi.
Questi anni ci hanno dimostrato che il sistema politico italiano e la sua attuale configurazione di alleanze non coese ma divergenti su tutto, poco si presta alla governance di una società industriale avanzata che per decenni è stata penalizzata nelle sue potenzialità.
Neanche il Presidente Draghi da solo può cambiare questa realtà.
E se questa realtà neanche noi la possiamo purtroppo mutare, di certo però dobbiamo tenerci ben riparati dai danni che ci può infliggere.
In Confindustria non ci può essere spazio per alcun collateralismo politico e partitico.
In alcune parti d’Italia, a un occhio attento, le imprese sono troppo vicine a questo o quel sistema di potere politico.
Dobbiamo tutti guardarcene come da un contagio pericoloso.
Voglio rileggervi a questo proposito un monito solenne.
A levarlo era un mio predecessore, Guido Carli, nelle assemblee generali della nostra Associazione nel 1977 e 1978, anni difficilissimi di alta inflazione, disoccupazione e terrorismo.
Diceva Carli:
“Non siamo alla fine della lunga crisi di questi anni, ma purtroppo a un suo nuovo principio. Perché nei mesi alle nostre spalle le scelte economiche sono avvenute in una sorta di crescente condiscendenza dei partiti a misure frammentate e temporanee, invece che strutturali.
Anche se ci si chiede incessantemente di alimentare la fiducia, noi ne abbiamo perché la fermezza popolare supera di gran lunga l’instabilità divisiva di ciò che ci propone la politica. Ma tutto ciò è molto diverso da quel ritorno generale al mercato che può in concreto gettare basi solide e di lungo periodo della salvezza dell’Italia”.
E aggiungeva, l’anno precedente:
“Occorre scongiurare ogni rischio di subalternità alle politiche dei partiti. Il nostro Paese possiede un patrimonio di democrazia sostanziale ancora da valorizzare: ma sono numerosi gli adempimenti ancora tutti da compiere sul piano culturale, del costume, e soprattutto dei ruoli sociali, politici e istituzionali, perché la potenzialità democratica si traduca in forme vigorose di crescita economica e in una mutazione di come politica e governi guardino ai fattori reali di crescita. Gli italiani dovranno sempre tener fermo il timone perché siano solo partiti davvero democratici, nella loro vita interna e nelle loro scelte internazionali, a governare il Paese. Ma il compito delle imprese e di chi le rappresenta è di non piegarsi mai alle ragioni di questa o quella coalizione, questo o quel partito. Ci dobbiamo battere per la crescita, per quanto accidentata, lunga e ardimentosa sia l’acquisizione di questa cultura economica da parte dei partiti e delle istituzioni italiane”.
Queste parole mi sembrano pronunciate oggi e rappresentano gli stessi valori con i quali continuerò a svolgere il mio mandato.
Ed è questa, la linea che vi chiedo di costruire insieme, noi tutti.